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Monumenti ed edifici storici

Torre civica ex Palazzo pubblico sede dell'Archivio museo G. Mengoni

Il vecchio palazzo comunale situato sulla piazza principale di Fontanelice, a fianco della porta d'accesso al Castello, con l'estremità opposta a strapiombo sul rio Filippino (ora denominato Colombarino), nel corso dei secoli ha subito numerosi rimaneggiamenti e trasformazioni funzionali.

L'edificio attuale si trova, in parte, sull'area di sedime occupata, nel Medioevo, da un castello, già documentato nel 554, costruito da Marzio Coralto sul terreno donato da Narsete. In epoca rinascimentale, ciò che rimane della rocca è inglobato nel nuovo palazzo pubblico, caratterizzato da un loggiato esterno. Dai "manoscritti Cortini" apprendiamo che, intorno al 1579,
il governatore Dario Poggiolini propone l'acquisto di un orto a ridosso delle mura per ampliare il fabbricato: per pagare la ricostruzione, è imposta una tassa straordinaria a tutte le comunità che fanno parte del vicariato, fra cui, appunto, Fontanelice (all'epoca chiamato Fontana). Nel 1678, però, l'edificio è in pessime condizioni, ormai diroccato intorno alla Torre, ma occorre aspettare fino al 1735 perché siano approntati i primi lavori di restauro ma, nel 1748, una frana causa ulteriori danni alla rocca a strapiombo. Il 3 febbraio del 1759 i priori Zaccaria Mengoni e Francesco Fabbri cedono alcuni appezzamenti di terreno di proprietà comunale alla Compagnia del Rosario per 100 scudi, utilizzati per riparare il palazzo comunale che minaccia il crollo. Il fabbricato è restaurato e, in parte, ricostruito nel 1785 dall'architetto forlivese Luigi Zampa. Il 25 aprile del 1795 il Legato pontificio di Ravenna autorizza altri interventi conservativi, affidati ad Andrea Braga di Casola Valsenio, per un importo di 950 scudi. Con l'occupazione francese del 1796, porzioni del palazzo sono ipotecate per poter saldare le spese della ristrutturazione ma, una quarantina di anni dopo, nel 1838, il fabbricato è nuovamente in condizioni precarie e la perizia redatta il 6 giugno dall'ingegnere comunale Vincenzo Luigi Baruzzi stima un importo di 42 scudi per "ricomporre con ordine la facciata esterna della residenza del Magistrato, rifare la selciata del portico di fianco alla piazza e rimettere il muro tutto del portico stesso che serve da parapetto... ". Da una perizia di spesa redatta il 28 novembre 1842 per lavori sulla parte sinistra del palazzo, nei pressi della porta, apprendiamo che il macello all'interno dell'edificio viene spostato in altra sede e questi vani, ristrutturati, sono destinati ad appartamenti. Nel 1846-'47, Giovanni Calacca di Imola restaura la Torre, così descritta in una relazione precedente ai lavori: "Sul lato sinistro del comunale Palazzo di Fontana, e quasi a contatto della porta di Castello, sorge la torre dell'orologio...formata con quattro muri di cinta perforati in molte parti che racchiudono al pianterreno una bottega ad uso di caffè, al superiore la prigione e dopo l'ascesa una miserabile scala di legno dà accesso al meccanismo dell'orologio e quindi alla campana che di questi corrisponde le ore ed i segnali...allorché si tengono le consiliari adunanze...". L'impianto del palazzo, con i lati est e sud che racchiudono la piazza, resta immutato fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando i bombardamenti distruggono l'ala est, in seguito ricostruita solo in parte, ed i fabbricati sul lato nord comportando la successiva modifica dell'assetto urbanistico dell'area.

L'edificio in esame, a due piani fuori terra, costituisce, insieme all'attiguo corpo di fabbrica, un complesso ad "L" che chiude a sud Piazza Roma. Il prospetto porticato, cui si accede da una serie di gradini che seguono la pendenza della piazza, presenta sette arcate a sesto ribassato, intonacate come la cornice marcapiano ed il cornicione di coronamento, mentre la muratura portante è in sasso a vista. Una sequenza di semplici aperture rettangolari scandisce la facciata connotata, al centro, da una nicchia intonacata con una statua della Madonna. Il lato del palazzo su via Mengoni ha un'impaginazione maggiormente semplificata, essendo tutto in muratura in sasso con un'unica arcata parzialmente chiusa da un parapetto e con le medesime finestre rettangolari delimitate da una cornice intonacata del prospetto principale. La massiccia mole della Torre dell'Orologio, intonacata, domina il fabbricato: è a pianta quadrangolare con aperture a bifora su tutti i fronti nella parte superiore.

Il palazzo ospita l’Archivio Museo Giuseppe Mengoni, nato da una donazione di Carlo Basile, erede dell’architetto fontanese, inaugurato nel 2002 dopo un approfondito lavoro di inventariazione e catalogazione del materiale, promosso dalla Provincia di Bologna, dall’Istituto per i Beni artistici culturali naturali della Regione Emilia Romagna e dal Comune di Fontanelice. L’archivio raccoglie oltre millesettecento documenti progettuali prodotti dallo studio milanese dell’architetto fontanese Mengoni: la parte più consistente è costituita da materiale di progetto, documentazione fotografica, cartografica e scritta, prodotta e utilizzata per la costruzione della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, tuttora considerata una delle più belle al mondo, e la sistemazione delle aree ad essa circostanti. Tale documentazione si sviluppa dai primi disegni per il concorso bandito dal Comune di Milano nel 1861 per la “Sistemazione di piazza del Duomo e vie adiacenti”, fino agli esecutivi e ai particolari al vero, destinati alle varie ditte esecutrici dei lavori della galleria. Sono presenti inoltre, in quantitativi più limitati, elaborati relativi ad interventi progettati e in parte realizzati a Bologna – Palazzo Poggi Cavazza, il Palazzo di Residenza della Cassa di Risparmio in Bologna, Porta Saragozza, la Stazione ferroviaria e l’ipotesi per il completamento della facciata di San Petronio – accanto alla proposta per il “Piano per Roma” e a parte dei disegni realizzati dall’architetto durante il periodo in cui frequentò l’Accademia delle Belle Arti di Bologna. L'archivio nasce e si propone come Centro studi per l’architettura, che promuove annuali Giornate di studi mengoniani, attività di studio e didattica nelle scuole, consultazione e ricerca. Oltre che con l’architettura, l’archivio sviluppa stretti legami anche con il luogo in cui è collocato proponendosi come Centro documentazione territorio del Santerno, incentrandosi su tutte le espressioni naturali e costruite che questo ambiente qualificano e caratterizzano.

Scuole elementari G. Mengoni

   Nel 1918, per dotare il paese di un edificio scolastico più sicuro rispetto alle aule allestite nel vecchio palazzo municipale ed abbastanza ampio per accogliere un numero sempre crescente di alunni, la Parrocchia di San Pietro cede in perpetuo al Comune di Fontanelice la vecchia chiesa con abitazione adiacente ottenendo in permuta l'edificio sacro dedicato a Santa Maria dei Servi. Il progetto di adeguamento della chiesa alla nuova destinazione d'uso è affidato nel 1919 a Remigio Mirri (Imola, 1867-1946). Questi, figlio di Giuseppe, apprezzato architetto, dopo le Scuole Tecniche serali (presso le quali ottiene il diploma di 1° grado per il Disegno e quello di 2° grado per la Plastica), s'iscrive alla Regia Scuola di Applicazione per ingegneri, laureandosi nel 1893. Subito dopo, frequenta la Scuola di Applicazione per Architetti Civili, conseguendo il diploma nel 1895. E' allievo del faentino Antonio Zannoni che lo stima per "il suo non comune ingegno unito ad uno spiccato gusto artistico" e, in seguito, i due instaurano un forte legame d'amicizia che li porta a varie collaborazioni professionali. Dopo aver collaborato con Raffaele Faccioli, all'epoca responsabile dell'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti (primitivo nome dell'attuale Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Bologna) e Direttore dell'Accademia di Belle Arti, nel 1899 partecipa al concorso per ingegnere capo del Comune di Cagliari, ottenendo il primo posto ex equo con altri due aspiranti. Nel 1906 riceve una targa di bronzo al merito all'Esposizione Universale di Saint Louis. Fra il 1894 ed il 1910 è direttore ed insegnante della Scuola d'Arti e Mestieri "Alberghetti" di Imola, dove istituisce corsi per ebanisti e meccanici, per i quali riceve importanti riconoscimenti. In circa cinquant'anni di attività (non si dimentichi che dirige anche la Fornace Gallotti di Bologna, portandola ad un elevato livello produttivo), firma decine di progetti per committenti privati (soprattutto nobili imolesi che fanno ristrutturare le proprie residenze), per varie amministrazioni comunali e per la Chiesa. Numerose anche le architetture cimiteriali (alcune delle quali realizzate per committenti statunitensi), nonché progetti per mobili e anche per lampioni per l'illuminazione pubblica.

  Fra le sue costruzioni più interessanti, spiccano quelle industriali, gli orfanotrofi e le scuole, come, appunto, quella di Fontanelice, il cui progetto che, dalle prime idee del 1919 si fa sempre più ambizioso fino alla stesura definitiva con la torre campanaria, è approvato dal Ministero il 9 febbraio 1926. Si procede subito alla realizzazione dell'edificio, non solo per le sempre più precarie condizioni di stabilità del Palazzo Comunale, come già detto, parzialmente adibito ad aule scolastiche ma, soprattutto, perché, quando si costituisce, il 12 febbraio 1928, il Comitato per le celebrazioni del primo centenario della nascita dell'architetto Giuseppe Mengoni (1829-1877), nativo di Fontanelice, si pensa di utilizzare gli ampi locali del nuovo fabbricato per l'allestimento di una mostra dedicata al celebre progettista, con particolare riferimento alla Galleria Vittorio Emanuele il di Milano, suo capolavoro ma anche causa della prematura morte (cade, infatti, da ponteggi mentre sta controllando la posizione di un bucranio in vista dell'inaugurazione). Il 9 giugno il podestà di Fontanelice, il Cav. Tito Vezio Cavara, visto che non è possibile dare in appalto la costruzione alle inadeguate maestranze locali, apre le trattative con la ditta Giovanardi e Tozzola di Imola col vincolo di valersi esclusivamente della manodopera locale. A tale scopo, è contratto un mutuo di 125.000 lire con la Cassa di Risparmio in Bologna in attesa del mutuo definitivo di 195.000 lire concesso sugli Istituti di Previdenza amministrati dalla Cassa Depositi e Prestiti. Il 9 novembre del 1930, s'inaugurano, alla presenza delle autorità, le nuove scuole elementari intitolate all'architetto Mengoni: il busto in bronzo del progettista, è eseguito dallo scultore Enrico Barbèri (1850 - 1941), allievo di Salvino Salvini all'Accademia di Bologna e successivamente di Giovanni Duprè a Firenze, autore di numerose sculture celebrative ( si ricordano, fra gli altri, i monumenti a Rizzoli e a Panzacchi) ed attivissimo nella Certosa di Bologna (tombe Bisteghi, Cavazza, Borghi-Mamo, ecc.).

   Mirri, in questo edificio, s'ispira palesemente al repertorio mengoniano, (G. Bolognesi, Remigio Mirri ingegnere e architetto, 1867- 1946, in "Pagine di vita e storia imolesi",n.6, 1997, pp.207-222): si notino "le pilastrate d'angolo, le grandi finestre arcate, il parapetto, la cornice sottogronda decorata con il giglio fiorentino e i vasi a forma di cratere con finte piante di aloe in ferro battuto sulla parte balconata". Nel secondo dopoguerra e con l'andar degli anni, si riscontra la necessità di rendere più funzionale il fabbricato, caratterizzato da vani di grande metratura e di eccessiva altezza (il piano terra è oltre 4,90 m), da un numero insufficiente di aule rispetto agli alunni e dall'inadeguatezza dei servizi. Nel 1979, pertanto, si redige un progetto di ristrutturazione interna che prevede, oltre alla diversa distribuzione degli ambienti, anche la creazione di un altro piano, sfruttando le altezze esistenti. I lavori vengono realizzati nel 1980, mentre nel 1984 si risistema la scalinata d'accesso e l'area esterna e nel 1986 si restaurano le cornici e le modanature della facciata. A seguito delle lesioni alle murature causate dal terremoto del 14 settembre 2003, è stato elaborato un progetto di miglioramento strutturale comprendente anche la messa a norma degli impianti ed il superamento delle barriere architettoniche, autorizzato nel 2005 dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Bologna, Modena e Reggio Emilia. Ciò ha comportato una nuova distribuzione funzionale dell'edificio, con le aule che sono state modificate sia nel numero che nelle dimensioni e con la creazione di laboratori per le nuove esigenze didattiche.

Ex Casa del Fascio

   Con delibera n. 31 del 19 maggio 1932 del Podestà, il comune di Fontanelice acquista dal fallimento di Mari Antonio e Pasquale uno stabile urbano, all'angolo tra le attuali via Mengoni e Corso Europa, con orto e giardino al prezzo di lire 10.000 (che poi salirono a lire 11.330) da cedere al Fascio locale per la costruzione della propria sede. Il progetto dell'edificio fu elaborato dall'ing. Remigio Mirri, già autore delle nuove scuole elementari di Fontanelice. Le spese, previste inizialmente in lire 150.000, a lavori ultimati, a quanto sembra, risultarono superiori. La casa del Fascio venne solennemente inaugurata l'11 novembre del 1933 con una grandiosa cerimonia, presente il Federale di Bologna e la banda comunale d'Imola. Il comune concorse con un contributo complessivo di lire 20.000 mentre con una pubblica sottoscrizione fra i cittadini si raccolsero circa 45.000 lire.

   L'edificio si sviluppa su due piani fuori terra più il sottotetto di cui solo una parte è accessibile. La struttura è in muratura continua in sasso con solai in laterocemento. L'architettura realizzata fu definita dall'autore in "stile moderno". In realtà si caratterizza  per un accentuato eclettismo, linguaggio tipico del Mirri. "L'enfatizzazione della visione prospettica della posizione d'angolo, il senso di verticalizzazione della facciata d'ingresso e la tripartitura delle sue aperture, il cornicione ed il timpano sono elementi che caratterizzano molti edifici liberty. Ma nel progetto originario oltre alle teste zoomorfe e alle due statue di leoni seduti a guardia dell'ingresso (oggi non più presenti) vi erano, in corrispondenza degli spigoli, grandi statue aggettanti dal muro, simili a quelle realizzate da Mengoni negli interni della galleria milanese. Non manca anche un riferimento all'edilizia locale, con parti di superfici esterne trattate in sasso ad opus incertum, forse un riferimento alla "romanità" classica. Nell'ingresso principale con scalinata a ventaglio, interessante è l'elemento della trave interrotta che riprende l'idea della serliana.  Interessanti sono anche le strombature negli architravi e nei piedritti delle finestre al primo piano, il cui scopo funzionale è quello di permettere una maggiore entrata alla luce" (Remigio Mirri Ingegnere e Architetto 1867-1946, di Giorgio Bolognesi, tratto da Pagine di vita e storia imolesi n. 6 - Imola 1997 pagg.218-219). Negli interni vi erano quadri esaltativi del regime, quale la "marcia su Roma" dipinto da Luigi Baruzzi, come riporta l'articolo relativo all'inaugurazione della Casa del Fascio nel numero dell'Assalto del 18/11/1933.

  Nel dopoguerra l'edificio venne adibito a Casa del Popolo, con un cinematografo nella grande sala al piano primo. Successivamente al trasferimento del cinematografo, i locali mantennero per vari anni la funzione di circolo ricreativo al piano primo, che passò al piano terra con l'insediamento all'inizio degli anni '80 nell'edificio della sede della Comunità Montana della Valle del Santerno.  Dal 2006 ospita, nei locali restaurati al piano terra su via Mengoni, la Biblioteca Comunale di Fontanelice. 

Chiesa di S. Maria della Consolazione

 

(da "Storia di Fontanelice" di Cesare Quinto Vivoli - Fontanelice, Tip. Fons Elix, 1997)

   Nei primi anni del Cinquecento, il sacerdote Lorenzo Magnani e il fratello Paolo avevano donato al Comune le loro case poste in «burgo Fontane» allo scopo di costruire una chiesa ed aprire un convento. Il Consiglio Comunale, presieduto dal capitano Giovanni Antonio Urbani il 5 aprile 1506 accolse l'offerta e deliberò di costruire una chiesa ed un convento sull'area donata dai Magnani, utilizzando parte delle rendite dell'Ospedale di Sant'Antonio Abate e della Compagnia di Santa Maria. Il successivo 20 giugno 1507 l'area venne ceduta ai Frati Serviti di Riviera che ne presero possesso nella persona di padre M° Pietro da Treviso. L'anno stesso, a spese del Comune si cominciò a costruire la chiesa che nel 1511, benché incompleta, venne aperta al culto e nel 1516 completata. Contemporaneamente si cominciò a edificare il convento che nel 1545 era già terminato. A parte qualche conflitto con la limitrofa chiesa parrocchiale di S. Pietro, i buoni Padri Serviti gestirono per circa tre secoli chiesa e convento, dando un notevole contributo alla elevazione morale, religiosa e culturale del paese.

   Il 22 giugno 1798 i Servi di Maria furono soppressi, i beni confiscati e poi messi all'asta. Carlo Carretti acquistò con «Istromento d'azione forzosa delli 9 febbraio 1802, relativo all'istromento delle 12 Frimale anno decimo della Repubblica Cisalpina, rogato dal sig. Luigi Aldini», notaio di Bologna la chiesa, il convento ed il terreno attiguo. A decorrere dal 25 dicembre del 1806 Carlo Carretti affittò per dieci anni la chiesa dei Servi con «Coro, Sagrestia e Campanile» ad Angelo Galanti, Innocenzo Carretti, Luigi Tonielli, Cesare Loli e Domenico Magnani per la somma annua di £ 107,45. Nella chiesa gli affittuari potevano far celebrare gli uffizi divini, sia nei giorni festivi che in quelli feriali. Come il locatore, vi potevano seppellire i loro morti. A loro carico rimanevano le piccole riparazioni all'interno della chiesa, mentre eventuali lavori ai tetti ed ai muri rimanevano a carico del proprietario.

   Il 17 agosto 1811 Carlo Carretti vendette a Giuseppe Gentilini «tutto il Fabbricato inclusivamente  alla chiesa dello stesso convento, orto, vigna, terreno lavorativo, arborato, vitato, gropato, ed insomma tutto l'unito Recinto per tanto quanto è», al prezzo di lire 5.372,63. Fallito il tentativo di don Giuseppe Fiorini di ricostruire la chiesa di San Pietro, il paese si ritrovò praticamente senza edificio di culto. Allora il Comune pensò di provvedere, acquistando da Giuseppe Gentilini il 10 ottobre 1813 la chiesa già dei Serviti «con suo coro, attigua Sagrestia e Campanile... compreso anche l'unito Cimitero», al prezzo di lire 1.987,86. Nel 1861 il Comune vi fece fare un bel pavimento alla veneziana e vi stipendiò fino al 1892 un sacerdote perché vi celebrasse nei giorni festivi una seconda messa a comodo della popolazione.   Nel 1896 ne prese cura l'arciprete ed oltre alla messa domenicale, vi venivano celebrate solennemente le maggiori festività religiose. 

Antico acquedotto idraulico

Il condotto idraulico di Fontanelice, di incerta datazione, ma risalente presumibilmente all’epoca Romana, è collocato nell’attuale area mercatale.

Le recenti esplorazioni da parte dell’Imola Sub in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica hanno messo alla luce un complesso di cisterne,  in gran parte scavato direttamente nell’arenaria, senza foderatura successiva, composto di 3 grandi ambienti di cui il primo e il secondo uniti da una grande galleria parzialmente costruita, il secondo e il terzo da una galleria ristretta e tortuosa.

La cisterna di discesa è un ambiente cilindrico a pozzo coperto a cupola in mattoni; attraverso un’apertura bassissima si comunica con la galleria grande coperta da volte a botte. Si arriva quindi alla cisterna mediana, in pratica un settore di galleria, con volta a botte in muratura e fondo a pianta ovale che si raccorda alla pianta quadrata al livello dell’acqua. Da questo ambiente fuoriesce un cunicolo che termina in una terza camera che sale inclinata fino al livello stradale. La prima cisterna scavata nell’arenaria, è rivestita da una “camicia” di mattoni che nasconde la parete tagliata nella viva roccia. La cisterna mediana ha una particolarissima geometria: la parte immersa, che è ancora scavata nella viva roccia, è costituita da un volume formato da un prisma rettangolare intersecato da un prisma cilindrico ellissoidale che dopo brevissimo tratto si allarga verso il fondo di uno sferoide ellissoidale. Il cunicolo che porta alla terza camera è in mattoni con copertura a volta. L’ultima cameretta è inclinata perché una parte è costituita dal contenimento del terrapieno di sostegno di una via cittadina disegnato in uno dei Catasti Pontifici (1830 circa). La formazione di questa terza cisterna è perciò ascrivibile ad epoca successiva, quindi molto vicina a noi.

Porta di Fontana Elice

 Fin dal medioevo il paese o castello di Fontana venne circondato da mura con un unico accesso. La comunità prestò sempre particolare attenzione alla conservazione delle mura e alla manutenzione della porta. Pare che anticamente davanti alla stessa ci fosse un fossato piuttosto profondo, detto Rio della Porta. Alla sera essa veniva chiusa e riaperta al mattino, ma non è ben chiaro quando questa operazione secolare sia finita per sempre.

Negli ultimi tempi le entrate al castello erano in realtà due: una, che potremmo dire di servizio, per il passaggio dei pedoni ed a fianco l’altra un po’ più larga, ma insufficiente e disagevole al passaggio dei carri, situate tutte e due più o meno dove si trova l’arco attuale. Sia l’una che l’altra erano in pessimo stato e si imponeva un’opera di risanamento globale. L’Ingegnere comunale Vincenzo Luigi Baruzzi così scrive il 29 marzo 1826: “… caduto improvvisamente parte del vetusto e rozzo fabbricato di sassi in calce, senz’ordine, ed assai male alzato all’ingresso dell’antichissima Terra di Fontana… Quel Rispettabile Magistrato decretò il totale atterramento di già tristi miserevoli avanzi, come anco dell’Arco alzato nel modo, come sopra a secondo ingresso alla Piazza… tutti e due minaccianti rovina impiantandovi, ed alzandovi invece una sola Arcata, quale oltre un più facile, ed ampio accesso al paese, e restando sulla strada principale che da questo accenna alle più alte colline del Circondario, indi a tutte quelle del floridissimo stato toscano… Prima di tutto volendosi impiantare, ed alzare l’arco d’ordine Toscano… sostituendolo alli due vetustissimi ingressi… alla Terra di Fontana, dovranno questi, levarsi affatto, e sarebbe una stranezza intollerabile di sostenerli nello stato rovinoso in cui si trovano. Dunque per tutti i riflessi anche economici, vanno atterrati totalmente… “. Per la costruzione dell’arco era perciò necessario: “… ridurre l’ingresso più regolare e la larghezza tale da potervi sottopassare qualunque rotabile carico, giacché il primo era si fattamente ristretto, che a renderlo più facile, e non tanto pericoloso si dovettero rompere in addietro, alla peggio, le spalline laterali…”

Allegata alla sopraddetta relazione l’Ingegnere comunale aggiungeva un preventivo di spesa per un totale di scudi 164,26,3.

Ciò comportava l’abbattimento di vecchi muri a ridosso della proprietà Galanti e Bertazzini, lo scavo delle fondamenta su cui si poggiava l’opera mentre “tutto l’andamento dell’arco dovrà farsi di cotto, tagliando le pietre, e formando il mattonato esterno soltanto…”. Altri particolari andavano eseguiti in sasso, come lo stemma del Comune ed il mascherone sopra l’arco. Per avere un’idea della spesa bisogna tener presente che un muratore veniva retribuito con 40 baiocchi al giorno, un manovale 20, un sotto manovale 15. Uno scudo equivaleva a 100 baiocchi.

l’Ingegnere comunale così concludeva “… si dichiara essere questa la spesa più economica che possa farsi… al lavoro che eseguito colla precisione del disegno riuscirà di vago adorno al Paese e per gli anni moltissimi…”. In data 10 aprile 1837 in 19 punti venne compilato il capitolato che tra l’altro così recitava: (2°) La demolizione della porta vecchia verrà eseguita in modo che non resti impedito agli uomini, meno poi alle bestie, ed alli rotabili il libero accesso, e recesso dalla Terra…

(8)non potrà però adoperarsi altro sasso se non quello, che viene a levarsi dalla cava detta sotto Ca’ de’ Mazza…

La gara di appalto si tenne nella residenza municipale il 26 maggio 1837, presenti tre contendenti, cioè Giovanni Cenni, Giovanni Quadri e Giacinto Gallotti di Imola. Il lavoro venne assegnato a Giacinto Gallotti in via definitiva il 12 giugno 1837 con riduzione di spesa a scudi 130. L’Ingegnere capo della provincia di Ravenna, dopo aver esaminato i disegni, la perizia ed il capitolato, esprimeva parere favorevole e con evidente esagerazione, il 7 ottobre 1837 così scriveva: “… il disegno di quest’arco porta l’impronta del Cinquecento, e qualora venghi bene eseguito riuscirà di un bellissimo ornamento per quel paese…”

Il Gallotti avrebbe dovuto iniziare i lavori il 25 aprile 1838 ma il 12 giugno 1939 non aveva ancora mosso un dito, nonostante “eccitamenti e minacce per parte del Magistrato” in fase di esecuzione, come spesso succede, si resero necessari alcuni lavori supplementari per un importo di scudi 56.36,7 che rapportati al ribasso della perizia, vennero ridotti a scudi 44.61,1.

I lavori terminarono presumibilmente nel 1842. Il collaudo avvenne con generale soddisfazione il 7 gennaio 1943. Si tenne conto anche dei lavori supplementari “ onde mettere l’arco in isquadro e rendere così più decoroso, si aumentarono le dimensioni del muro lungo la strada, ed ai due Piloni dietro superiore sanzione, e si fecero di cotto le due pigne, lo stemma del Comune, festoni e mascherone”

I lavori in cotto erano stati richiesti espressamente dall’appaltatore che si era reso conto che l’arenaria locale era: “di qualità tenera e quindi facile la sua degradazione dal rigore della stagione” tanto più che non si trovano “artisti al caso di fare un simile lavoro in piazze circonvicine”. Il Gallotti aveva perciò proposto “ la costruzione di tali lavori in terra cotta con sua vernice sopra, verificandosi in questo caso maggior durata”. Tale variazione venne accettata dal Comune senza difficoltà.

E’ tradizione comune che l’arco sia stato disegnato da Luigi Zampa, deceduto nel 1836, ma forse ne è stato solo l’ideatore, proponendo in tal modo il risanamento e la sistemazione della porta del castello. In realtà sia in fase di progettazione, sia in fase di esecuzione apparve determinante l’intervento dell’Ingegnere comunale imolese Vincenzo Luigi Baruzzi.

I disegni originali dell’arco, spesso citati durante le varie fasi di esecuzione dei lavori e che potrebbero sciogliere l’enigma, sono spariti dall’archivio di Stato di Ravenna. Perciò in mancanza di informazioni più precise, non ci resta che ripiegare sulla attribuzione tradizionale, cioè considerare l’arco opera dell’architetto tossignanese Luigi Zampa (pur con qualche riserva).

pubblicato 19/09/2018 10:20, ultima modifica 04/04/2022 14:57
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